I santuari di Medma

Esposizione a Budapest – programma di ricerca nell’Italia meridionale

Nove statuette votive fittili provenienti da Rosarno (RC), l’antica Medma, sono esposte al Museo di Belle Arti dal 30 ottobre 2018 alla fine di luglio 2019. La mostra inaugura Mouseion, la nuova serie di esposizioni temporanee della Collezione di Antichità Classiche.

Di seguito potete leggere il trattato di Ágnes Bencze, docente di storia dell’arte antica presso l’Università Cattolica Péter Pázmány, dedicato al contesto storico, artistico e storico-religioso di questi oggetti.

“La terra di re Italo” e i Greci
Per un lungo periodo – circa mezzo millennio –, la parte sud-occidentale appenninica della penisola, la “punta dello stivale italiano”, ha fatto parte del mondo delle poleis greche. Quando i coloni greci fondarono le prime città, dopo la metà dell’VIII secolo a. C., le coste erano già frequentate da secoli da navigatori in viaggio dall’Egeo verso l’Italia centrale. Lo stesso nome “Italia” (Italía) deriva proprio da questi luoghi: nei primi tempi indicava solo la parte meridionale dell’odierna Calabria. I Greci raccontavano che al loro arrivo questa era abitata dal “popolo di re Italo”. I Greci, che trasferivano in Italia la struttura istituzionale della polis, che si definiva proprio in quel periodo, tendevano ad usare il linguaggio del mito nel racconto di queste antiche avventure. La tradizione mitica collegò così le immagini di Scilla e Cariddi allo Stretto di Messina ed è lungo queste stesse coste che veniva ambientato l’incontro di Ulisse con il Ciclope, il gigante pastore con un occhio solo.

Strait_of_Messina_from_Dinnammare
Veduta dello Stretto di Messina (fonte)

Il paesaggio della punta della penisola è in gran parte dominato da alte montagne rocciose, gli Appennini più meridionali, sempre più impervie avvicinandosi allo Stretto di Messina. Verso nord e verso est il territorio diventa meno ostile, ma, proseguendo, si incontrano nuove alte catene montuose. Si hanno strette fasce pianeggianti solo lungo alcuni tratti costieri, e, a Nord dello Stretto, al quale si affacciava l’antica Rhegion, oggi Reggio Calabria, tra la costa occidentale tirrenica e quella orientale jonica, che si estendeva fino a Kroton (oggi Crotone), si avevano solo due valichi attraverso gli Appennini. Sullo Jonio i fondatori di Lokroi Epizephyrioi si insediarono intorno al 700 a.C., tra i primi gruppi di Greci diretti ad ovest.

A Mesima-folyó völgye. Francesco Cuteri felvétele
La valle del fiume Mesima. Foto: Francesco Cuteri

Come si intuisce anche dal nome della nuova polis, i fondatori arrivarono probabilmente da una regione della Grecia centrale, la Locride, ma gli storici antichi non erano concordi riguardo la loro città di origine. Le fonti antiche accennano vagamente ai rapporti dei primi locresi con le popolazioni trovate in luogo: si ricorda, da un lato, l’episodio di un giuramento fraudolento, dall’altro la notizia che fa intuire che la prima generazione di coloni si sia legato in matrimonio con le donne delle comunità locali. Reperti archeologici attestano che durante l’VIII e il VII secolo a.C. gli insediati nelle valli delle montagne che si innalzano nell’entroterra di Lokroi acquistarono sempre di più i prodotti dei greci, imitandone le forme nei propri manufatti. Ben presto la loro cultura materiale divenne indistinguibile. Si conservarono nel tempo solo tracce della loro lingua e della loro religione, desumibili solo in base ad alcuni toponimi difficili da interpretate in greco e da alcuni culti particolari.

Lokroi, Medma, Hipponion
Per quanto riguarda Lokroi e i sui suoi abitanti, si hanno numerose informazioni: le fonti letterarie antiche ricordano la storia della sua fondazione, le sue guerre perse e vinte e il suo leggendario legislatore, Zaleukos, che fu, secondo alcuni, l’autore del primo codice di leggi in tutto il mondo greco. All’inizio del XX secolo l’archeologia moderna era già in grado di determinare l’estensione della città, il tracciato delle sue mura e l’ubicazione dei suoi quartieri abitativi e dei suoi santuari. Prima della fine del VII secolo a.C., gli abitanti di Lokroi avevano esteso il proprio controllo su gran parte del tratto di penisola compreso tra i fiumi Sagra e Halex, non solo sulle coste, ma anche sulle montagne dell’entroterra. Cosa ancora più importante, appartenevano a Lokroi anche i due valichi via terra tra il Mare Ionio e il Mare Tirreno, che assicuravano così ai Locresi l’accesso diretto agli importanti approdi tirrenici per la navigazione verso Nord-Ovest, evitando di passare attraverso lo Stretto di Messina, che avrebbe implicato chiedere il permesso a Rhegion. Intorno al 600 a.C. – data determinata soprattutto in base ai reperti archeologici – i cittadini di Lokroi stabilirono due importanti insediamenti lungo la costa tirrenica, nei punti dove i passi appenninici raggiungono il mare: Medma a sud, nella limitata pianura corrispondente alla foce del fiume Mesima, e a nord Hipponion, in cima a un rilievo che assicura una visuale unica sulla tutta la costa tirrenica.

Medma, Hipponion e Lokroi sulla punta della Calabria

Da questo periodo in poi, fino alla seconda metà del V secolo a.C. e forse fino agli anni 420 a.C., le tre poleis, Lokroi e le sue due subcolonie collaborarono in stretta alleanza, formando un piccolo impero in Italia meridionale. Nell’iscrizione su uno scudo di bronzo dedicato ad Olimpia per commemorare una vittoria, si legge come le tre città avessero sconfitto congiuntamente la vicina e rivale Kroton, verso la fine del VI secolo a.C. Più tardi le due subcolonie si rivoltarono contro la metropoli, come attesta lo storico ateniese Tucidide. Nel 422 a.C., durante la guerra del Peloponneso, Lokroi era già in guerra con Medma e Hipponion.

Nella prima metà del V secolo a.C., nel periodo in cui si datano le statuette esposte a Budapest, Lokroi, Medma e Hipponion erano probabilmente ancora unite in senso politico e culturale. Non abbiamo informazioni sicure riguardo lo status giuridico dei loro cittadini o la costituzione delle due città filiali, ma è probabile, tuttavia, che le tre comunità condividessero una serie di elementi che si possono considerare criteri indicatori dell’identità culturale: veneravano gli dèi, in gran parte probabilmente gli stessi, con culti e riti analoghi. Analogamente erano al corrente delle tendenze stilistiche che fiorivano nei principali centri dell’arte greca, che poi elaborarono tutte e tre secondo scelte coincidenti, caratterizzandosi così con un gusto artistico unitario.

Il temenos: il luogo sacro della città greca
Anche nel caso di Medma si ha un’unica fonte per formulare le nostre ipotesi ed interpretazioni, i reperti recuperati nello scavo dei santuari della città antica. Il termine “temenos”, cioè santuario, significava, nella città greca, principalmente un’area sacra isolata dal mondo profano. Il sostantivo derivava dal verbo ‘temnò’, cioè ‘tagliare’. Nel territorio di una polis si distribuivano sempre numerose aree sacre: vi erano santuari sia nel centro che nella periferia della città, mentre altri erano collocati lontano dai quartieri abitati, in mezzo alla natura, vicino a sorgenti o ai margini dei terreni coltivati. Non era necessario che all’area sacra appartenesse anche un edificio templare, in particolare prima del IV secolo a. C. Così, oltre ai muri che delimitavano i confini, un santuario può essere identificato soprattutto in base alle tracce lasciate dei riti che vi erano celebrati. Sebbene non sempre possiamo ricostruire con precisione i riti con i quali gli abitanti della polis cercavano di entrare in contatto con i loro dei, in molti casi ne conosciamo l’essenziale, come l’usanza di offrire alla divinità del santuario doni votivi. Quelli durevoli e che si conservavano, da manufatti modesti a grandiose opere d’arte, vengono messi in luce dagli scavi archeologici. La posizione degli oggetti e le modalità della loro sepoltura permettono agli archeologi di formulare ipotesi riguardo a quando e come, sono stati sepolti e a quali riti vanno riferiti.
Proprio la scoperta di numerosi gruppi di tali reperti ha portato all’identificazione dei santuari di Medma. Così le poche cose sicure che sappiamo oggi sulla città antica riguardano i suoi santuari, almeno tre aree sacre indipendenti, situate nelle vicinanze dei quartieri abitativi.

I santuari di Medma
Il sito dell’antica Medma è stato identificato con l’odierna Rosarno intorno al 1910 da Paolo Orsi, il padre dell’archeologia del Sud Italia. L’identificazione fu preceduta da sporadiche scoperte di antichità nel territorio, per lo più frammenti di statuette in terracotta e di ceramiche, che formarono collezioni private locali, mentre alcuni oggetti entrarono nel commercio d’arte internazionale. Gli scavi sistematici furono iniziati solo da Orsi nel 1912, che pubblicò nel 1914 il primo studio comprensivo dedicato ai reperti dell’antico insediamento, ormai identificato con Medma. Le ricerche da lui iniziate furono riprese solo mezzo secolo dopo, negli anni ’60, da Salvatore Settis e da altre brevi campagne svoltesi negli anni ’70, ad opera di Claudio Sabbione e di Maurizio Paoletti. In seguito la ricerca archeologica sul luogo fu ripresa solo in anni recenti, nel 2014 e nel 2018. Recentemente lo sviluppo caotico della cittadina moderna ha modificato pesantemente la topografia dei luoghi, rendendo inaccessibili numerose aree che un secolo fa sarebbero state ancora fruibili per la ricerca archeologica.

Ulivi ai confini di Rosarno. Foto: Attila Hajdú

La topografia dell’antica Medma è quindi tutt’altro che chiara e una ricostruzione completa probabilmente non ne sarà mai possibile. La cinta muraria, e quindi l’estensione del territorio urbano, per la maggior parte è sconosciuta. Reperti rinvenuti ancora da Orsi indicano il sito di una sua necropoli. In base alle indagini più recenti si pensa che i reperti relativi ai luoghi di culto scoperti da Orsi corrispondano a tre santuari (temenoi) diversi, che – contrariamente a quanto creduto da lui – non erano situati al di fuori della zona urbana, ma in mezzo ai quartieri abitati. Il sito più significativo dei tre sembra essere quello della contrada Calderazzo, nel quale l’Orsi aveva individuato e scavato una enorme “fossa votiva”, contenente offerte e oggetti di culto sepolti nell’antichità. I reperti suggeriscono che il santuario fosse frequentato dai cittadini di Medma già a partire dagli anni successivi al 600 a.C., non molto tempo dopo la fondazione della città, con alcune sue zone che rimanevano ancora frequentate nel IV secolo a. C. Il gruppo di reperti più importante venne sepolto tuttavia intorno al 450 a. C.

Gli altri due santuari si trovavano nelle contrade Sant’Anna e Mattatoio di Rosarno (toponomi in uso ai tempi degli scavi di Orsi). Sulla base dei ritrovamenti pensiamo fossero attivi entrambi tra il VI e il IV secolo a.C. Oltre a piccole figure fittili femminili, il sito di Sant’Anna produceva un gran numero di cavallini fittili, mentre i reperti del santuario del distretto di Mattatoio includevano figure di uomini banchettanti, più frequentemente, coppie di uomini banchettanti.

In assenza di iscrizioni e di altre fonti scritte non è possibile identificare con certezza le divinità venerate nei singoli santuari. Gli unici indizi sono costituiti dagli oggetti rinvenuti negli scavi, soprattutto le statuette di terracotta. Le figure e busti femminili, soprattutto le rappresentazioni di una figura femminile seduta in trono o in piedi, si riferiscono probabilmente a Persefone, la Regina degli Inferi secondo la mitologia greca. Il suo nome è stato proposto in relazione a tutti e tre i santuari di Medma. Un possibile culto di Afrodite è stato ipotizzato nel caso sia di Calderazzo, sia di contrada Sant’Anna, dove sono tracce anche del culto di una dea guerriera, forse Athena Hippia, che potrebbe aver apprezzato i cavallucci di terracotta. Nel caso dei banchettanti, si è propensi a pensare ad Ade, marito di Persefone e signore degli inferi, o a Dioniso, che spesso viene ad identificarsi con lui.

Calderazzo: il più grande santuario di Medma
Il santuario più importante di Medma è stato identificato da Paolo Orsi tra il 1912 e il 1913 in contrada Calderazzo, nell’odierna Rosarno. Per lungo tempo l’unico rinvenimento sicuro del santuario era costituito dalla grande favissa, una fossa larga 3,5 metri e la cui lunghezza sembrava misurare ca. 30 metri, utilizzata già dagli antichi per la sepoltura rituale dei doni votivi. Scavi successivi, soprattutto quelli condotti nel 2014 e nel 2018, hanno dimostrato che il deposito votivo era ancora più grande, con una lunghezza superiore ai 40 metri. Inoltre, un certo numero di stipi votive più piccole sono state identificate nelle vicinanze della grande favissa, all’interno dello stesso santuario. Nel 2018, gli archeologi riuscirono anche a identificare nella zona un probabile piccolo tempio periptero.

Il santuario di contrada Calderazzo, veduta aerea, 2018 (Archeopros)

Tra i doni sepolti nella favissa vi erano vasi corinzi e attici, oltre a oggetti di produzione locale, strumenti in bronzo e armi di ferro, modelli di templi in terracotta e fittili rappresentanti altri oggetti come scudi e frutta. Ma il gruppo di reperti più numeroso e significativo, sia dal punto di vista storico artistico che storico religioso, è costituito dalle statuette di terracotta.

Il tema principale del repertorio di statuette è quello della figura femminile seduta su un trono ornato, con i piedi a forma di zampe leonine, vestita di un ricco drappeggio, con un diadema o una corona sulla testa e una serie diversificata di oggetti in mano.

Cat_263_A_doc
Figura femminile in trono che tiene un gallo. Rosarno, Museo Archeologico, inv. 1126

Un altro tipo a figura completa è femminile stante, con un abbigliamento altrettanto ricco, ornata con diadema e con altri attributi.

Rosarno, Museo Archeologico, inv. 3038+10729
Figura femminile stante. Rosarno, Museo Archeologico, inv. 3038+10729

Una terza classe di doni votivi è costituita dai busti, che diedero agli artigiani locali la maggior possibilità di mostrare il loro talento di modellatori.

Cat_257_A
Busto femminile. Rosarno, Museo Archeologico, inv. 10733

I depositi votivi del santuario del Calderazzo hanno restituito anche un certo numero di figure maschili.
L’identificazione delle figure rappresentate non sempre può essere risolta oltre ogni dubbio. Si è tentati di considerare la figura in trono come una dea, ma avremmo bisogno di ulteriori attributi per stabilirne l’identità precisa.

Cat_299_A
Figura femminile seduta in trono con colomba. Rosarno, Museo Archeologico, inv. 40407

La colomba potrebbe costituire un riferimento ad Afrodite, ma le figure sedute in trono spesso tengono in mano anche altri attributi: un gallo, una patera, un cofanetto o una figura alata. Nel caso delle figure in piedi, il problema è ancora più complesso: le statue di questa classe spesso sembrano rappresentare donne mortali che portano doni e sacrifici, piuttosto che la dea stessa. In altri casi, le terracotte raffigurano chiaramente personaggi mitologici (Athena, Hermes) o figure umane differenti. Per l’interpretazione delle figure fittili rinvenute nel santuario del Calderazzo e del culto vi si praticava può essere utile un confronto con le terracotte votive recuperate nei coevi depositi rituali di Lokroi e Hipponion.

Un santuario, tre città
Le terrecotte votive nel mondo greco, tra il VII e il V secolo a. C. rappresentavano una produzione di interesse locale. I ritrovamenti archeologici mostrano che le terrecotte raramente venivano esportate in santuari di paesi lontani. Spesso sono il colore e la qualità dell’impasto che dimostrano come le statuette offerte alle divinità erano realmente plasmate con l’argilla del territorio della loro polis. Spesso stile e tecnica di modellazione delle statuette sono caratteristiche della produzione locale nelle diverse città. Tenuto conto di ciò è particolarmente interessante esaminare i reperti di Lokroi e delle sue subcolonie. La maggior parte delle terracotte rinvenute nei santuari di Medma è stata prodotta con la caratteristica argilla locale rossiccia e granulosa, riconoscibile a prima vista. Un’argilla diversa, con superficie più liscia, rosea all’esterno e grigia all’interno, è caratteristica dei fittili di Hipponion. Infine a Medma si trovano, soprattutto fra le terracotte votive più antiche, risalenti al VI secolo, numerosi esemplari prodotti con l’argilla di Lokroi, tenera e giallastra, e quindi importati.

Quest’ultima constatazione indica come i santuari di Medma erano frequentati da fedeli provenienti da tutte e tre le città, che dedicarono le statuette prodotte nelle officine delle proprie comunità. D’altro canto, i rinvenimenti di Lokroi e di Hipponion mostrano come nello stesso modo agissero anche i cittadini di Medma. Si può concludere, dunque, che nella prima metà del V secolo a.C. i santuari delle tre città erano collegati tra di loro, con i membri delle tre comunità che si univano gli uni ai culti degli altri, con i santuari che funzionavano anche come luoghi dedicati ai contatti reciproci.
L’intreccio culturale delle tre città è suggerito anche dalla resa stilistica degli oggetti votivi. I coroplasti di Medma, proprio come i loro colleghi di Lokroi e di Hipponion, erano in contatto diretto con i principali centri dell’arte greca. I dettagli delle statuette (pettinatura, abbigliamento, accessori) dimostrano che erano al corrente delle innovazioni introdotte dagli scultori attivi in Attica, nel Peloponneso e nelle isole delle Cicladi. Non si limitavano tuttavia a copiare questi elementi, ma – assimilandoli con libertà creativa e fantasia – li trasformavano in modo da esprimere un proprio specifico gusto artistico. Le terrecotte che provengono dai santuari di Lokroi, Medma e Hipponion nella prima metà del V secolo a. C. sono particolarmente interessanti perché, pur restando distinguibili tra di loro, si mostrano apparentate nelle scelte stilistiche nella trasformazione delle coeve tendenze dell’arte greca.

Persefone a Lokroi e la dea dei santuari di Medma
L’aspetto specifico più particolare delle terrecotte votive dedicate nei santuari della sfera Locrese corrisponde ad una funzione particolare alla quale esse erano destinate, oggi conosciuta solo vagamente. Esse sono testimonianze dei culti e delle credenze che caratterizzavano la vita religiosa delle tre città e acquisivano significato funzionale come offerta votiva periodicamente nei santuari, innanzitutto in occasione delle feste. La nostra fonte di documentazione più ricca è costituita dai santuari di Lokroi, in particolare da quello di Persefone situata sulla collina della Mannella, famoso già nell’antichità. I doni più frequenti offerti in questo sito sono costituiti da una classe caratteristica di manufatti fittili, tavolette decorate con rilievi (pinakes), portate alla luce in migliaia di frammenti durante gli scavi del XX secolo.
Un gruppo consistente di pinakes locresi narra il mito della dea Persefone, attraverso una serie di episodi. Quello più frequentemente proposto rappresenta il momento del ratto della dea vergine ad opera di Hades, il signore degli Inferi. Altre volte rivediamo la dea ormai nel ruolo di sposa di Hades e regina degli Inferi, seduta in trono accanto a suo marito o da sola, spesso nell’atto di ricevere gli omaggi di mortali o di altre divinità.

Un’altra serie di rilievi sembra rappresentare, invece, fanciulle mortali in situazioni quotidiane e festive; talvolta chiaramente nell’atto di eseguire rituali riferiti ai preliminari delle nozze.

Anche se lo studio sistematico del repertorio dei pinakes di Lokroi, caratterizzato da un’infinita ricchezza di rappresentazioni, si è concluso solo di recente, in seguito a decenni di lavoro, nel corso dei decenni passati hanno visto la luce numerosi tentativi di interpretazione del culto locrese di Persefone, con problemi che rimangono tutt’ora aperti, anche perché la dea era intesa come protettrice di due momenti chiave, apparentemente distinti, della vita umana: il compimento della femminilità da una parte e il transito dall’esistenza terrena all’Aldilà, dall’altra. I cittadini di Lokroi, soprattutto le donne e le fanciulle che celebravano i riti in onore di Persefone nel santuario della Mannella, potrebbero aver sollecitato la sua risposta per entrambi i momenti cruciali.

Le nostre conoscenze relative ai santuari e ai culti di Medma e di Hipponion sono oggi ancora più limitate. I documenti più importanti dei riti, le statuette votive in terracotta, consentono tuttavia un’ipotesi prudente, proprio in base a quanto detto sopra sull’interconnessione dei tre repertori cultuali. Esemplari di pinakes locresi sono infatti venuti alla luce anche nei santuari delle altre due città, benchè in quantità meno importanti. D’altro canto, le statuette prodotte e dedicate a Medma nella prima metà del V secolo a. C. corrispondono alle figure femminili rappresentate sulle tavolette locresi in ogni dettaglio: abbigliamento, acconciature, elaborazione del trono corrispondono tutti a quelli delle scene che rappresentano Persefone seduta in trono sui pinakes. Perfino gli oggetti tenuti in grembo dalle figure – come il gallo, la colomba, la patera, il cofanetto e così via – si rivedono come motivi ricorrenti nelle tavolette, rappresentati in modo identico. Inoltre, le caratteristiche stilistiche che caratterizzano le statuette di tutte e tre le città sono sempre quelle delle scene dei pinakes. Questa unità formale solleva questioni che attendono ancora risposta: si tratta di un indizio che rivela credenze e pratiche rituali condivise dai cittadini delle tre comunità? Testimoniano riti celebrati congiuntamente dai cittadini delle tre comunità? Oppure sono da considerare più importanti le differenze locali che distinguono tra di loro i repertori votivi della sfera locrese? Oppure le differenze locali che sono distinguibili tra i repertori dei doni votivi del gruppo Lokroi hanno un significato maggiore? Risposte più precise ed articolate a queste questioni si attendono dall’esame sistematico dei materiali archeologici rinvenuti nei santuari di Medma e di Hipponion.

Progetto internazionale per la ricerca sulla coroplastica votiva di Medma
Le statuette e frammenti di statuette, giunti da Rosarno a Budapest nell’autunno del 2018 sono stati rinvenuti nel corso degli scavi eseguiti tra 1912 e 1913. Insieme a centinaia di reperti simili erano conservati nei depositi fino ad oggi e sono ora esposti per la prima volta, sapientemente restaurati dai tecnici del Museo di Belle Arti di Budapest.
L’esposizione attuale è momento di un programma di ricerca incentrato sulla scultura votiva in terracotta di Medma e delle altre città sorelle, avviato nel 2017 con il supporto del Museo di Belle Arti di Budapest, dell’Università Cattolica Pázmány Péter e dell’École Française de Rome. La realizzazione del progetto è resa possibile dal sostegno della Soprintendenza ABAP della Calabria e del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. E’ stata di importanza fondamentale la generosa assistenza del capoarea archeologo, Dott. Fabrizio Sudano. Gli oggetti esposti sono stati restaurati da Zita Rostás e da Katalin Csontos, presso il Museo di Belle Arti di Budapest.

Ágnes Bencze

Leave a reply!